“Montanari si nasce. Montanari si muore” di Matteo Bertone. Bertone nasce a Vercelli nel 1975. Dal 2006 si occupa di comunicazione per una multinazionale farmaceutica. Da oltre vent’anni scrive romanzi e racconti, pubblicati su riviste e antologie letterarie
Ecco il suo articolo “Montanari si nasce. Montanari si muore” di Matteo Bertone, che per AltreVoci Edizioni ha pubblicato DOVE GHIACCIO ATTENDE.
“Montanari si nasce. Montanari si muore” di Matteo Bertone
La montagna non la puoi cambiare. E nemmeno i suoi abitanti.
Ci ha provato forse Paolo Cognetti, che in montagna è andato a vivere, lassù ha scritto il suo romanzo più noto e popolare, ha organizzato tre edizioni di un bellissimo festival letterario nella radura di Estoul, in Val D’Ayas. E poi? E poi c’è stata la pandemia, d’accordo, ma era già nell’aria che il festival non si sarebbe fatto più. Non tutti erano felici di quell’evento, in valle.
I montanari non sono solo eremiti che vivono nelle baite e scendono in paese tre volte l’anno, come il protagonista del romanzo Neve, cane, piede di Claudio Morandini, ma anche coloro che in montagna sono nati e cresciuti, che dalla montagna hanno appreso la durezza, le difficoltà, la solitudine, che l’hanno vista molte volte usurpata e rovinata per sempre da stranieri di città con la smania di ricavarne impianti da sci, complessi di villeggiatura non sempre rispettosi del paesaggio, disboscando foreste, scavando pendii e rimuovendo pietre per sfruttarla nel peggiore dei modi, fino a trasformare molte località in una propaggine delle città, un parco divertimenti sulla neve per adulti viziati.
E spesso proprio i montanari sono stati complici di questo sfacelo, accecati dai facili guadagni. Salvo poi fare i conti con cambi climatici, carenza di neve e chiusura di impianti, i cui resti sbucano oggi dai boschi e dai prati come scheletri di dinosauri in ferro e cemento.
Talvolta i montanari più accoglienti, più affabili, sono coloro che la montagna l’hanno scelta, che l’hanno guardata con occhi nuovi e hanno deciso di viverla in modo rispettoso delle biodiversità, ripopolando luoghi abbandonati, recuperando colture dimenticate, tenendo in vita tradizioni e costumi.
Oggi più che mai sembra che un certo modo di abitare i piccoli nuclei rurali, aiutandosi a vicenda, condividendo la fatica e godendo di quel territorio ricco di bellezza ma fatto di grandi silenzi e grandi difficoltà, possa essere una strada per imparare da capo a vivere in questo mondo nuovo.
Di montanari ne ho incontrati, da quando è uscito il mio ultimo libro, Dove Ghiaccio Attende, e per un po’ ho coltivato l’illusione che lo avrebbero apprezzato. È un libro onesto, in fondo, il racconto di un uomo che scopre la montagna, e che non ha alcuna pretesa di definirsi montanaro, anzi, dimostra il massimo rispetto per i luoghi e le persone, cerca di imparare ciò che non sa, si avvicina a ciò che non conosce con curiosità e umiltà. Non è una storia di alpinismo, come ho ripetuto spesso, ma una visione sulle terre alte, che sanno donare pace, meraviglia ed equilibrio in cambio di una sana fatica.
Eppure, nella maggior parte dei casi, i montanari sono stati proprio i lettori più ostici e critici. La mia non è una montagna da conquistare, da sfidare, ma da comprendere e ammirare, una montagna da cui imparare come vivere meglio le difficoltà di ogni giorno, e forse per loro non è sufficiente. Loro vedono cime da raggiungere e pareti da scalare. Forse qualcuno si è offeso perché in un passaggio del libro si parla di montanari che non sanno più apprezzare i luoghi in cui abitano, perché ci hanno fatto l’abitudine, quando spesso ci vogliono occhi nuovi per vedere la bellezza intorno a noi (è un dato di fatto).
Mi sono chiesto se avessi sbagliato io, se per caso, senza volerlo, avessi mancato di rispetto in qualche modo a questo universo di sentieri e creste e crinali che pratico regolarmente, e che credo ormai di conoscere un poco. Ma forse la risposta sta proprio nella natura stessa dei montanari, così come degli alpinisti. Sono comunità chiuse, diffidenti, alle quali puoi accedere solo se dimostri di aver superato delle prove, e queste prove non riguardano certo la scrittura, quanto le cime conquistate, le imprese superate, le sfide conseguite. Io volevo raccontare la mia visione della montagna, il mio modo di viverla, e in gran parte i lettori lo hanno apprezzato.
Credo che la montagna sia in grado di accogliere chiunque la sappia trattare con rispetto, ma credo anche che non sia necessario aver scalato il Nanga Parbat per poter scrivere di montagna, che sia sempre la buona scrittura a definire un libro, a farne emergere il significato profondo, e non solo la storia in sé.